Siccome gli anni '80 sono tornati ampiamente di moda, con essi è tornato in voga anche l'uranio. Per questo parliamo per la seconda volta in meno di due settimane di strategie per catturare uranio disperso qui e là. Più nel dettaglio, nel precedente articolo volevamo affrontare il tema di come chelare l'uranio nell'organismo di un paziente intossicato, mentre nel presente post l'interesse si rivolge a ben altra matrice, cioè quella marina. Infatti è noto che l'oceano, ovvero quella enorme massa d'acqua e sali che ha l'importante funzione di dare un colore meno noioso al nostro pianeta roccioso, contiene circa 4 miliardi di tonnellate di uranio disciolto. Per avere un'idea più concreta delle quantità, basti pensare che tutte le miniere del mondo ne contengono al massimo mille volte di meno. Il bello delle miniere, però, è che lì l'uranio lo puoi raccogliere col piccone perché è intrappolato in formazioni geologiche di vario tipo, mentre nel mare è semplicemente disperso come ione uranile in concentrazioni ridicole: 3.3 parti per milione. Insomma, il mare fa schifo come miniera ed il piccone (in questo caso) si rivela del tutto inutile. Invece, se c'è una cosa che l'essere umano fa da tempo immemore sulle sue barchette, quella è la pesca. I ricercatori cinesi avranno perciò pensato che se siamo in grado di devastare interi ecosistemi con invasivi sistemi di pesca indiscriminata, dovremmo anche essere in grado di costruire reti specifiche per catturare l'uranio ed andare a recuperarlo come una specie di Moby Dick atomizzato.

Ma che caratteristiche deve avere una rete per catturare l'uranio in mare?

  1. Deve avere un'elevata selettività per gli ioni uranile
  2. Deve essere rapida nell'adsorbire gli ioni
  3. Deve essere facile da rigenerare e quindi deve essere semplice anche il recupero dell'uranio attaccato alla rete
  4. Deve essere sufficientemente resistente

In poche parole deve essere possibile riutilizzare la stessa rete molte, moltissime volte, altrimenti il giochetto non risulta sostenibile. Non si tratta di una sfida da poco, dato che in realtà è da più di 50 anni che il mondo si interroga su come risolvere questo problema. Al momento la migliore rete in commercio sfrutta dei polimeri funzionalizzati con gruppi ammidossimici, ma praticamente fallisce soprattutto per due punti su quattro: non è abbastanza selettiva per l'uranio (raccoglie infatti pure un sacco di vanadio) e impiega un botto di tempo per adsorbire gli ioni.

SUP

Il team diretto da Wang (Nat. Chem. 2014, DOI: 10.1038/nchem.1856) ha perciò guardato al magico mondo delle proteine e ne ha trovata una estremamente selettiva, tanto che è chiamata super-proteina legante l'uranile (super-​uranyl-​binding protein SUP). Per continuare sulla falsariga della metafora sulla pesca, possiamo dire che l'amo buono ce l'abbiamo, ma senza una canna da pesca non si va da nessuna parte; per questa ragione il team di ricercatori ha fuso la proteina con la spidroina, cioè una delle principali componenti fibrose della ragnatela. Per farlo, è stato ingegnerizzato E. coli al fine di fargli produrre questa proteina chimerica che, quando raccolta a pH 4, si autoassembla in un idrogel filamentoso che non è tanto resistente quanto una ragnatela vera e propria, ma già supera i migliori polimeri ammidossimici da questo e molti altri punti di vista. Il problema? La biodegradabilità: se dopo cinque cicli la rete ancora funziona al 90% dell'efficienza, al decimo questa precipita sotto il 70%. Si tratta però di risultati iniziali e vanno presi come tali, soprattutto se consideriamo che hanno già dato migliori rese di qualunque alternativa attualmente disponibile.


Fonti: